Se dovessi descrivere cosa si fa durante i turni in Urgenza Psicologica parlerei di una delle ultime chiamate che ho ricevuto, a Giugno 2018.
“Buonasera, io ho la psicosi”.
Esordiva così una giovane donna che aveva ricevuto pochi giorni prima la diagnosi di psicosi, e da allora aveva cercato da sola, tramite internet, di capire che cosa volesse dire quella parola. Aveva letto che uno dei sintomi della psicosi sono i disturbi del pensiero e l’isolamento sociale, e da allora si tormentava pensando alla sua relazione con il suo fidanzato.
Secondo lei tra loro c’erano troppi momenti di silenzio, che leggeva come un inizio dell’isolamento sociale. Mi chiedeva cosa avrebbe potuto fare, o dire, per evitare quei silenzi, e quindi per evitare che la sua diagnosi seguisse il decorso che aveva letto su internet.
Mi ha raccontato tutto questo senza neanche dirmi come si chiamava, chi era, quanti anni aveva, cosa faceva nella vita, perché per lei ormai tutto quello che la descriveva era la diagnosi di Psicosi, e non sapeva cosa fosse.
È stato durante questa chiamata che tutte le parole che spesso sentivo in equipe dai miei colleghi come “l’approccio centrato sulla persona”, “ridare identità e dignità ai pazienti”, “rifiutare l’identificazione con la diagnosi”, che sono i fondamenti dell’attività dell’equipe, hanno avuto un senso concreto e ho capito davvero che cosa volessero dire.
Quei silenzi che tanto spaventavano la giovane donna facevano parte della sua relazione con il compagno da prima della diagnosi, ed erano sempre stati un loro modo di vivere lo stare insieme. Quei silenzi piacevano ad entrambi, ma adesso a lei facevano paura, perché erano diventati il sintomo di una malattia.
Quello di cui aveva bisogno questa giovane donna era non sentirsi solo “una con la psicosi”, ma sentirsi ancora una persona, sempre la stessa, che aveva lavorato per anni, che aveva una relazione, che leggeva, che amava gli animali, la natura, e i silenzi.
Una diagnosi non cambia chi siamo stati fino al giorno prima, e non dice chi saremo domani.
Penso che questo sia stato il contributo più grande che ho ricevuto nella mia formazione, che mi porterò dietro e che mi guiderà nell’approccio con i pazienti, perché possano sentirsi sempre delle persone, e mai delle diagnosi.